La Lingua Indiscreta e L'Irripetibile

Marco Focchi

 

L'isteria è oggi scomparsa dalla nosologia psichiatrica, inghiottita dal vortice dell'oblio, come non fosse più riconoscibile dopo che ha perso i caratteri di vivace teatralità con cui si era presentata a Charcot e ai clinici del diciannovesimo secolo. E' cambiata l'espressività del sintomo isterico, si è trasformata, potremmo dire, la sua poetica, che passa ora, per esempio, attraverso le manifestazioni, meno istrioniche anche se non meno appariscenti, delle patologie alimentari o degli attacchi di panico. Il lessico dell'isteria, soggetto, come qualsiasi altro, all'erosione del tempo e alle variazioni storiche e sociali, ha mutato i termini con cui pone i propri quesiti sulla sessualità, sul desiderio e su un'insoddisfazione radicale di fronte alla quale nessun oggetto appare adeguato.

La teoria classica e quella contemporanea

Quando Freud si confrontò con le domande dell'isteria il primo problema non fu di soddisfarle, ma di capirle, di penetrarne l'enigma. Le domande si ponevano nel linguaggio cifrato dei sintomi e dei sogni, scritte sul corpo o affondate nel buio della notte, e occorreva farle venire alla luce, chiarirle, interpretarle. La parola nella psicoanalisi si è così, dall'inizio, articolata in un dialogo asimmetrico. Un lato è quello del paziente, che formula la domanda in cui si pongono gli interrogativi sulla contingenza della propria vita, o sulla necessità in cui la vita si trova presa, o ancora su quel che vi è d'impossibile nel proprio desiderio: è quel che Lacan riassume dicendo che la domanda si sviluppa in una logica modale. L'altro lato è quello della risposta che l'analista dà attraverso l'interpretazione, separando il grano dal loglio, il vero dal falso, proponendosi in un carattere che Lacan, usando un termine aristotelico, definisce apofantico.

Agli inizi della psicoanalisi la risposta all'invocazione del soggetto consisteva innanzi tutto nel capire e nel far capire, nel decifrare. Da qui trae il proprio successo la metafora della stele di Rosetta, che porta a paragonare Freud a una sorta di Champollion dell'inconscio. D'altra parte la struttura del sogno come è presentata nella Traumdeutung è effettivamente analoga a quella della stele di Rosetta; è costituita da un testo scritto in due diverse lingue: quella delle immagini oniriche manifeste e quella dei pensieri latenti. Ciò che è detto nella lingua oscura, figurata del sogno o del sintomo va tradotto nella lingua che esprime in modo trasparente i contenuti che il soggetto non sopporta, rifiuta, rimuove. Fin qui abbiamo la teoria degli inizi, chiara ed espressiva, formulata con le immagini vagamente drammatizzate della teoria edipica.

E' una teoria che fa largamente riferimento al concetto di censura, il quale ha ampio spazio della Traumdeutung, perché considera un contenuto sessuale latente, scritto in un messaggio cifrato che, una volta decodificato, potrà scandalizzare il soggetto, potrà risultare insopportabile rispetto ai suoi valori morali. La censura implica la nozione di un contenuto che può benissimo essere linguisticamente formulato ma che non si può dire per motivi di decenza, o di convenienza, o di politica. Una volta superato lo scompiglio portato dall'affioramento del contenuto proibito però, il soggetto è indotto a rielaborare e a integrare gli aspetti che prima gli sembravano inaccettabili e insensati. Su tale presupposto si fonda l'idea che è sufficiente restituire un senso a certi elementi apparentemente incoerenti o sintomatici nella condotta per sganciare il soggetto dal determinismo patogeno in cui è imprigionato.

Nella teoria contemporanea invece il concetto di censura risulta un po' desueto: si punta, infatti, più a un limite interno al dicibile che non a un'espressione mascherata, si valorizza una soglia dove cade la potenza di significare del linguaggio, più che un messaggio attivamente soppresso da un'istanza apposita.

Di cosa parla il soggetto nella sua domanda? La teoria classica mette in risalto come qualunque cosa esprima, esponga, presenti, quel che il soggetto dice subisce lo stesso trattamento del testo del sogno: viene considerato come testo manifesto che cela un testo latente, che è sovradeterminato, che rimanda a un campo semantico diverso da quello che indica esplicitamente. L'Übertragung freudiana all'origine ha esattamente quest'accezione: la traslazione, la trasposizione o la trascrizione di un senso nascosto in una parola che ne ha un altro.

La macchina per fare l'amore

Prendiamo un esempio. L'assioma fondamentale della Traumdeutung è che il sogno raffigura un desiderio come soddisfatto. Il sogno di un paziente, che lamenta costantemente il proprio insuccesso con le donne, sembra fatto per confermarlo: vede una ragazza giovane e bella e, da pochi cenni, capisce che vuol fare l'amore con lui. La carica in macchina e percorrono un po' di strada verso la campagna. Poi si fermano, scendono e si avviano a piedi lungo un canale. Distratti dai discorsi si ritrovano in aperta campagna, nella nebbia umida e fredda, quando lui sente che il desiderio della ragazza si fa pressante. E' il momento culminante, lei lo desidera, occorre concludere. Ma dove? Sono ormai lontani da tutto, e lui deve allora reincamminarsi per la strada da cui sono venuti, deve andare a prendere la macchina per fare l'amore. In questo paziente — che cerca senza sosta l'acquisizione dei meccanismi comportamentali per fare le cose, che si regola in base al precetto di imparare l'arte e di metterla da parte, che cerca sempre le istruzioni per l'uso della vita senza mai metterle in pratica — la sequenza finale del sogno, la macchina per fare l'amore, segna la frontiera tra il piano narcisistico e il campo pulsionale. Per un verso indica l'ideale completezza dove le istruzioni dicono tutto, dove per avere successo con le donne basta lasciarsi desiderare, seguire uno spartito, avviare un automatismo: c'è tutto quel che serve, e se non è proprio a portata di mano basta andarlo a prendere. Per altro verso denota la mancanza fallica, la macchina che non c'è e che rimanda al campo pulsionale, esprime un desiderio che non obbedisce ai comandi della volontà, e rispetto a cui non ci sono istruzioni per l'uso.

Quel che nella Traumdeutung è presentato come la divisione tra un testo manifesto e un testo latente può, in effetti, essere generalizzato come separazione tra il piano narcisistico della rappresentazione, dove il soggetto si raffigura come io, e il campo pulsionale, organizzato intorno alla mancanza fallica, dove il soggetto svanisce. L'importanza del materiale linguistico su cui fa leva l'interpretazione appare in questo esempio con chiarezza. Il passaggio che l'interpretazione realizza verso il campo pulsionale non può avvenire in un punto qualsiasi del testo manifesto, ma solo nel punto di contatto creato dall'espressione equivoca "la macchina per fare l'amore", perché lì si nasconde la sincope soggettiva che occorre rivelare.

Questi concetti risultano più chiari nella formalizzazione che ne ha dato Lacan. Rovesciando l'algoritmo saussuriano del segno, Lacan fa apparire la priorità del

significante sul significato, che l'esempio del sogno mette in evidenza, e scrive:

S

———————

s

L'equivoco su cui gioca l'interpretazione del sogno appare allora in questa forma:

LIVELLO MANIFESTO

macchina per fare l'amore

——————————————————————————

automobile dove fare l'amore

LIVELLO PULSIONALE

macchina per fare l'amore

————————————————————————

mancanza fallica

Da una parte la macchina per fare l'amore indica una presenza, qualcosa di cui il soggetto pensa di poter disporre, o di cui chiede la disponibilità attraverso la sua domanda di istruzioni per l'uso. Dall'altra parte troviamo una mancanza, che va presa in due modi. Nel discorso del soggetto, dove appare, anche se dissimulata, in forma di domanda, mancanza significa: non ancora. Non ho qui la macchina per fare l'amore, ma la vado a prendere, non conosco ancora il modo per avere successo con le donne, ma lo imparerò. Nella risposta dell'interpretazione, delineare la mancanza significa invece portare il soggetto a riconoscervi l'essenza del proprio desiderio, in modo tale che la mancanza non può essere colmata senza annullare il desiderio stesso. Nel primo caso la mancanza è contingente, nel secondo è necessaria.

Diverse prospettive dell'interpretazione

La formalizzazione di Lacan fa apparire diverse prospettive dell'interpretazione. La prima gioca su una sostituzione di significato. In fondo è quel che si intende nel senso più generale di interpretazione. Per esempio nell'esecuzione musicale l'abilità dell'interprete consiste nel fa apparire risvolti impliciti di un pezzo già scritto, nell'arricchirlo di un senso nuovo che appartiene al potenziale dello spartito, ma che non è mai affiorato prima. L'interpretazione, per questo versante, è un supplemento di senso.

Mettere l'accento, come fa Lacan, sulla priorità del significante sul significato traccia però un'altra prospettiva. Nell'esempio del nostro sogno c'è senz'altro la possibilità di leggere uno spostamento di senso: nel discorso esplicito del paziente "macchina per fare l'amore" è l'automobile, mentre nella risposta interpretativa è il fallo. Ponendo così le cose è possibile cogliere però soltanto un livello superficiale, che resta ancora sul piano immaginario. Non è un'interpretazione poi così profonda suggerire al paziente che una cosa che dice può voler dire anche un'altra cosa. In realtà, il punto radicale sta nel mostrargli che non vuol dire niente o, meglio, che vuol dire il niente, ciò dietro cui non c'è nessun'altra rivelazione possibile. Questo significa che si tratta di far passare il significante dalla normale funzione referenziale che svolge nel discorso quotidiano alla sua realtà di pura parvenza, come il velo di Parrasio. Ci può essere un effetto comico in questa modalità dell'interpretazione: quel che appariva come enigma, la rivelazione attesa con inquietudine è in realtà poco più che nulla, la tragedia edipica si volge in commedia, l'angoscia si risolve nel godimento del riso. Non abbiamo giocato sugli equivoci del senso, abbiamo fatto leva sul significante puro, sul significante ultimo dietro cui non c'è più nulla da dire, sul carattere che Lacan definisce non-sensico del significante.

Ma è proprio vero che dietro l'ultima parola in cui si esprime il significato del fallo non c'è più nulla da dire? O non è piuttosto, come suggerisce Calvino, che il limite della parola fa apparire l'immensità di quel che resta da dire? Nella misura in cui l'interpretazione si rivolge al campo pulsionale non può più giocare soltanto sugli effetti di senso, sulle sostituzioni significanti, sulle rivelazioni d'insight. Non basta più capire e far capire, perché in questione, oltre al senso, c'è anche il soddisfacimento, l'esigenza che l'isterica pone al di là del riconoscimento del desiderio e dalla quale al tempo stesso si sottrae con la mossa classica della derobade: credevi di trovarmi qui, invece sono da un'altra parte.

Che cosa manca?

Consideriamo la struttura classica dell'interpretazione. Si tratta di rivelare la verità del soggetto, di far apparire la mancanza in cui esso consiste nel linguaggio. Se però il soggetto, dal lato del linguaggio, è mancanza, da un altro lato è qualcosa. Che cosa? La risposta canonica è che se nel linguaggio il soggetto è mancanza, nell'essere il soggetto è l'oggetto (a), quel che resta una volta stabilito che la mancanza non è l'ultima parola. Si appoggia su queste nozioni l'espressione di Lacan, così difficile da rendere in italiano, manque à être. A parte l'ascendenza nobile, sartriana, del concetto, l'espressione è un calco preso dal linguaggio della ragioneria: manque à gagner, che indica un mancato guadagno. Non si tratta di una somma che c'era e che è sparita, ma di una somma che non è mai entrata all'incasso. Così l'essere del soggetto non è qualcosa che c'era e che si è perduto per strada nel corso dello sviluppo, ma ciò che il soggetto non ha mai avuto e a cui aspira. Per rendere in inglese quest'idea Lacan ha proposto di tradurre la sua espressione con: want to be, dove want indica la mancanza ma anche la tensione verso l'essere mancato, il voler essere. E' il motivo per cui l'interpretazione incentrata sul significato fallico, che indica la mancanza in ultima istanza, la mancanza non rimediabile, non dice tuttavia l'ultima parola. Resta infatti la tensione, la proiezione verso un punto di fuga, verso una consistenza che il linguaggio non può afferrare. L'idea chiave che Lacan esprime in manque à être è l'evento di un mancato incontro del linguaggio con l'essere del soggetto, mancato incontro che lascia dietro di sé l'inquietudine del desiderio, la minaccia dell'angoscia o la promessa del godimento.

Si tratta allora di ampliare la semantica dell'interpretazione. Nella visione classica un sintomo nasconde uno o più fantasmi. Il repertorio dei fantasmi compilato dai primi psicoanalisti rende conto del senso, rivela il fondo della mitologia individuale del soggetto. Il fantasma, in effetti, è ancora un modo di narrazione: mette in forma d'immagini indelebili, o di sequenze frastiche (come il freudiano "un bambino viene picchiato") il racconto dell'evento, dell'incontro mancato del linguaggio con l'essere. L'interpretazione che rivela il fantasma è quindi ancora una modalità di parola incentrata sulla mancanza, che si lascia sfuggire di tra le dita ciò che indica con chiarezza, che disocculta l'essere nell'attimo stesso in cui questo si ritrae.

L'essere e il linguaggio

E' un tema su cui sono inesauribili i commenti di Lacan che prendono come spunto l'apoftegma freudiano wo Es war, soll Ich werden. Respingendo la proposta di tradurre indicando una semplice sostituzione, dove la componente pulsionale deve ritirarsi perché l'io possa prenderne il posto, Lacan innalza il detto freudiano a una dignità presocratica. Nell'Es c'è l'essere, o meglio quasi c'era, era lì lì per venir colto, quando improvvisamente si è dileguato nel sopravvenire del soggetto.

Finché inseguiamo l'essere con il linguaggio, vuoi per dargli un senso, vuoi per imprimergli la sigla definitiva della mancanza, siamo tuttavia nella clinica dell'impotenza. Restaurare la verità non vuol dire al tempo stesso modificare la situazione. E' un ostacolo che gli psicoanalisti hanno storicamente incontrato e affrontato con il famoso dibattito sugli standard, svoltosi negli anni Cinquanta. Il tema della definizione del setting e delle sue regole non è infatti di Freud, che si era limitato ad alcuni consigli, né della prima cerchia viennese. Il problema della regole del setting si impone dopo che alcuni dei pionieri, come Ferenczi e come Alexander, avevano esteso il repertorio dei fattori terapeutici al di là dei mezzi del linguaggio, ritenendo l'interpretazione insufficiente a produrre un cambiamento nella struttura soggettiva. Queste posizioni erano state considerate eretiche, e stabilire precise norme per la pratica e per il setting aveva la funzione di circoscrivere nuovamente l'operazione psicoanalitica alle risorse linguistiche indicando l'interpretazione e l'insight come unico fattore terapeutico, accanto al quale potevano esserci varianti o modificazioni momentanee, ma non deviazioni. Kurt Eissler, in questo significativo dibattito, esprime con maggiore chiarezza e rigore la posizione standard.

La formula lacaniana dell'inconscio strutturato come un linguaggio, che è contemporanea a questo dibattito perché ha la propria data di nascita proprio all'inizio degli anni Cinquanta, non è quindi, in questo quadro, affatto sovversiva. Riattualizza, alla luce dello strutturalismo e della linguistica di Saussure prima, di Jakobson poi, l'idea di fondo della psicoanalisi tradizionale: che un mutamento nell'economia del soggetto si realizza attraverso un'operazione linguistica. Lo fa con una potenza concettuale, con una ricchezza di riferimenti, con un ampliamento culturale che non trova il pari tra gli analisti a lui contemporanei. Resta però su una linea consolidata. Naturalmente rinnova il concetto d'interpretazione, lo fa uscire dalle stagnazioni delle corrispondenze immaginarie, lo sottrae ai facilismi riduttivi per cui una cosa ne vuol dire un'altra e il gioco è fatto. Non si discosta però, riguardo ai principi terapeutici, dal solco già tracciato. Occorrerà per Lacan un ripensamento del concetto di pulsione, tra la fine degli anni Cinquanta e durante tutto il corso degli anni Sessanta, perché escano in luce gli spigoli più innovativi della sua riflessione che, nell'ultima parte del suo insegnamento, sfocerà nella problematizzazione del reale.

L'evento pulsionale

Senza entrare nello specifico di questo tema, che è ancora al centro del dibattito lacaniano attuale, raccogliamo solo un suggerimento di Miller, un'idea che espone nel suo corso del 1999-2000, Les us du laps dove afferma che nella psicoanalisi il reale è definito non a partire da ciò che permane, da ciò che è immutabile, ma da ciò che ha luogo, dall'evento.

Il reale pulsionale, quel che sfugge alla presa del linguaggio, va considerato su un registro temporale. Quel che resta dopo l'ultima parola, dopo la riduzione della parola a pura parvenza fallica che svela la mancanza, è l'evento pulsionale.

A questo punto possiamo inquadrare la torsione che sta tra la psicoanalisi classica e quella contemporanea, tra la psicoanalisi euclidea definita dal dibattito sugli standard degli anni Cinquanta, e quella non-euclidea o non-standard, di cui la pratica di Lacan costituisce un esempio.

Nella psicoanalisi classica il sintomo nevrotico racchiude il senso di un trauma. In questa affermazione bisogna fare attenzione sia al termine senso sia al termine trauma, che è il modo freudiano di indicare l'evento. Perché la potenza di svelamento dell'operazione interpretativa abbia un effetto di mutamento sull'economia del soggetto è necessario pensare che senso ed evento coincidano. Il senso, la visione soggettiva dell'evento, deve esaurire interamente in sé le prerogative dell'evento in quanto tale. Il fantasma deve essere allora la narrazione esaustiva dell'evento, riassorbirne tutte le caratteristiche, dispiegarsi come mito individuale del nevrotico. Questa è una delle possibilità di lettura della primissima svolta che Freud imprime al suo pensiero e che lo porta, come scrive a Fliess, a non credere più ai suoi nevrotici. Prima si era convinto che l'etiologia della nevrosi stesse in un episodio reale di seduzione accaduto al paziente nella prima infanzia, poi si rende conto che non è possibile, che se così fosse tutte le famiglie bene di Vienna sarebbero popolate di pedofili e considera che le cose devono stare diversamente. Non si tratta di una seduzione avvenuta nella realtà dei fatti, ma di una fantasia di seduzione, che riguarda la realtà psichica. Una fantasia sovrainvestita libidicamente deve avere allora lo stesso impatto traumatico di un episodio effettivamente accaduto. Se le cose stanno così però, basta rivelare al soggetto il contenuto della sua fantasia inconscia per liberarlo dalla schiavitù del sintomo. L'operazione linguistica è sufficiente perché il fattore traumatico stesso è costituito da una sequenza linguistica e d'immagini. Il soggetto si appoggia a esigui indizi di realtà, un rituale di corteggiamento tra animali, delle situazioni ambigue osservate tra i genitori, rumori strani sentiti durante la notte, per costruire storie che non hanno nulla da invidiare alla violenza e alla potenza erotica dei miti.

Se ben si considera questo sviluppo freudiano, si vede però che si presta all'identificazione di senso e di evento solo se si lascia cadere un fattore fondamentale: è vero che il fantasma è un montaggio di parole e di immagini che funziona come generatore narrativo, ma c'è un aspetto che non si può trascurare: l'investimento libidico. Un fantasma diventa traumatico solo se investito libidicamente, e questa è una componente che non si riconduce all'idea di realtà psichica come assemblaggio linguistico. Il dibattito sugli standard elude proprio questa componente, oppure l'affronta attraverso la nozione di una gerarchizzazione delle interpretazioni: prima quelle della resistenza, poi quelle del materiale. Tutto resta comunque imperniato sull'insight, cioè su una presa di senso.

Quando parliamo di evento dobbiamo precisarne il concetto, perché abbiamo qui una chiave di volta per capire l'importanza e i limiti del linguaggio nell'esperienza psicoanalitica.

L'evento innanzi tutto non è l'episodio capitato al soggetto in un momento della sua vita e che ha lasciato in lui un'impronta, nel bene o nel male. Naturalmente la vita di ciascuno è fatta di simili episodi che lasciano un segno, che diventano significativi o memorabili. Nella misura in cui diventano significativi s'inseriscono in schemi generatori di senso che costituiscono i diversi strati della biografia del soggetto. L'orientamento narratologico della psicoanalisi americana, in prospettiva postmoderna, ha criticato l'idea che esista una sola biografia autentica, e ha impostato la cura sul progetto di costruzione di biografie alternative possibili e vivibili per il soggetto. Semplificando: il paziente racconta una storia dove ci sono delle difficoltà dalle quali consegue la sua nevrosi. L'analista classico abitualmente lo aiuta a riscoprire il passato ricostruendo il suo vissuto empirico e inquadrandolo in una sorta di biografia normativa. I narratologi rifiutano la nozione di una storia costituita dai fatti del passato e prendono come riferimento il presente: la storia del paziente comincia con l'inizio dell'analisi e il passato viene riorganizzato e riletto secondo diversi tagli possibili. Si tratta insomma di costruire per il soggetto una vicenda dove possa trovarsi meglio e riconoscersi. Il tempo è concepito a partire dall'attualità e l'evento è pensato come un dialogo in corso.

C'è una posizione antitetica tra analisti come Ferenczi, che considerano il trauma come un effettivo episodio avvenuto nella realtà, e i narratologi, che annullano lo spessore empirico della biografia per ricondurre l'evento a scambio dialogico. Da una parte c'è un'apoteosi del vissuto, dall'altra c'è un'assolutizzazione del verbale.

Dobbiamo considerare però che se l'evento non è riconducibile all'episodio empirico, non è tuttavia neppure omologabile a puro fatto di parola, non è raccontabile, non è oggetto semantico.

Per averne un concetto preciso è necessario distanziarsi sia dalla sua riduzione empirica ad episodio biografico sia dalla sua concezione narrativa. L'evento è in realtà evento pulsionale. Con questo entriamo in uno dei temi più impegnativi del dibattito psicoanalitico contemporaneo. La nozione di pulsione è in effetti refrattaria alla prospettiva empirica in cui si muove la scienza. Finché la psicoanalisi rivendica uno statuto epistemologico di scienza positiva trova sul proprio cammino l'intralcio della pulsione. Questa è stata una tra le difficoltà maggiori in cui si è imbattuta la psicologia dell'io formulata dai primi postfreudiani. La freudiana pulsione di morte era sembrata da subito un azzardo metafisico e solo Melanie Klein, tra i pionieri, l'aveva accettata senza riserve. Heinz Hartmann, il teorico di punta della psicologia dell'io, è anche il maggiore fautore della necessità di inscrivere la psicoanalisi nella scia delle scienze positive, e si trova per questo costretto a spiegare la pulsione in termini di energia, di forza e di lavoro. L'energia psichica è considerata fondamentalmente di natura fisiologica, ed è formulata come una versione impoverita del concetto di energia fisica. Quello che per Freud era un concetto limite tra il fisico e lo psichico viene così reso puramente sul piano biologico. E' una posizione che incontra grossi limiti nella pratica clinica, che fa dubitare dell'utilità della metapsicologia, e che porta i narratologi, agli inizi degli anni Settanta, a rifiutarla in toto per abbracciare una posizione di tipo ermeneutico. Nella psicologia dell'io, per un verso, la psicoanalisi viene inclusa nelle Naturwissenschaften e la pulsione viene naturalizzata nella biologia, nella narratologia, per altro verso, la psicoanalisi viene spostata nelle Geisteswissenschaften e la pulsione viene semplicemente accantonata.

L'uomo e l'animale o l'animale nell'uomo

Sempre intorno agli anni Settanta emerge un'altra posizione, quella espressa da John Bowlby con la teoria dell'attaccamento, che rifiuta l'idea di un'energia psichica e ripensa le premesse della psicoanalisi sulle basi dell'etologia. Nella sua visione non occorrono ipotesi energetiche su ciò che attiva un ciclo comportamentale, ma nulla in essa distingue la pulsione dall'istinto animale. Viene così annullata la discontinuità tra l'uomo e l'animale, come d'altra parte viene annullata nella moderna biopsichiatria, che, fondando le proprie ricerche su esperimenti fatti con cavie animali per trarne modelli applicabili all'uomo, non solo contraddice il dato biologico ormai assodato che nessuna specie può costituire un modello sperimentale per un'altra specie, ma soprattutto elude la complessità che il linguaggio introduce nell'organismo e nelle sue risposte. Infatti, come è noto da Aristotele in poi, il salto tra l'animale e l'uomo è nel linguaggio. Naturalmente questo non esaurisce l'argomento e sul topos filosofico dell'uomo e dell'animale si è intrattenuto Giorgio Agamben ne L'aperto, uno dei libri più interessanti del panorama filosofico contemporaneo.

Resta però che il linguaggio è ciò che disorganizza l'istinto, che lo scardina dall'automatismo del proprio ciclo. L'esempio degli enfants sauvages in questo senso è tra i più suggestivi. I più famosi sono forse Victor, trovato nell'Aveyron nel 1799 e Amala e Kamala, due bambine trovate in India nel 1920, ma sono documentati alcune centinaia di casi di questi esseri muti, cresciuti con animali e che, avendone acquisito le abitudini, si muovono per esempio con rapidità su quattro arti, o mangiano carne cruda e, reinseriti in ambiente umano, sopravvivono pochi anni senza acquisire il linguaggio né, quindi, la possibilità del pensiero simbolico.

Gli enfants sauvages, che nelle classificazioni di Linneo comparivano con il nome di Homo ferus, rendevano evidente già alla riflessione degli illuministi quanto poco naturale fosse la "natura" umana: senza esposizione ad ambiente umano l'animale umano non si umanizza. Per trasformare l'Homo ferus in Homo sapiens non basta la semplice evoluzione, è necessario l'incontro traumatico con il linguaggio.

Il ciclo dell'istinto, dallo stimolo d'innesco, alla sequenza comportamentale, allo stimolo di cessazione, perde, con l'acquisizione del linguaggio, la propria sicura guida. Sul piano del comportamento sessuale l'animale è sollecitato, per esempio, dalla livrea del partner, dai suoi colori, da una danza di corteggiamento: obbedisce a una determinazione. Nell'uomo invece, come illustra la bella storia di Dafni e Cloe tramandata da Longo Sofista, nessun sapere innato conduce il soggetto verso l'altro sesso: tutto è da imparare, perché se il linguaggio destituisce la naturalità dell'istinto, non mette al suo posto nessun'altra bussola, non fornisce nessun significante che accenni quel che inequivocabilmente l'istinto indica con i segnali d'innesco. In questa luce possiamo definire l'evento pulsionale come la frattura tra ciò che era l'istinto e ciò che diventa la pulsione, come la discontinuità tra l'uomo e la sua animalità, come il punto di non ritorno tra l'Homo ferus e l'Homo sapiens, dove il linguaggio segna per il soggetto l'impossibilità di coincidere con il proprio essere.

Si racconta che Amala e Kamala, dopo essere state strappate alla loro famiglia di lupi, morirono, prima di aver compiuto i vent'anni, d'impoverimento fisiologico, sempre guardando la foresta dalle finestre dell'ospedale in cui erano ricoverate.

Prigioniere di un contesto umano a loro estraneo, lo sguardo di Amala e Kamala fisso sulla foresta sembra la figura emblematica del voler essere del soggetto, del suo manque à être. Con questa significativa differenza: Amala e Kamala guardano qualcosa che hanno avuto e perduto, uno spazio empirico in cui sono state effettivamente immerse e dal quale nessuna frontiera le separa se non il carcere di cure in cui languiscono; il soggetto invece insegue un essere che si è sottratto ab origine, rispetto a cui è segnato un punto di non ritorno. E' il motivo per cui l'evento pulsionale non ha una collocazione cronologica né una possibilità narrativa.

La vita alla deriva nel linguaggio

Prendiamo ora una polarità concettuale costituita da un'antitesi netta: quella di evento e di ripetizione. L'evento ha carattere repentino e fugace, è un lampo svanito appena comparso che non istituisce nessuna durata, segna un istantaneo distacco dall'essere che non fa in tempo a diventare pensiero. La ripetizione si dispiega nella permanenza, insiste a rivolgersi a ciò che è perduto, continua a domandare, ritorna incessantemente al punto di sottrazione dell'essere come a farlo sorgere e in questo senso la ripetizione è la negazione dell'evento: persiste a chiedere l'essere di cui l'evento pulsionale ha segnato la perdita.

E' importante precisare cosa accade nell'evento e cosa si ripete nella ripetizione. Ho cercato sopra di mostrare come l'evento pulsionale segni la frattura tra l'uomo e la sua animalità. Quest'idea non è da sovrapporre a ciò che Lacan formula intorno al manque à être. L'essere perduto prima di venire incontrato, l'essere che il soggetto insegue non coincide con l'animalità. L'uomo, come vivente, continua la propria esistenza corporea, e nell'esperienza psicoanalitica la corporeità del soggetto ha tutta la sua importanza. L'impoverimento vitale portato dal linguaggio non fa del soggetto un ente di pura logica. Possiamo dire che l'evento pulsionale è l'affioramento della vita la cui persistenza interferisce nel linguaggio, anche se il linguaggio non prende la vita nelle proprie determinazioni, anche se si tratta di un reale che va alla deriva. E' quel che negli ultimi anni del suo insegnamento porta Lacan a esprimersi parlando di deriva pulsionale. La vita va alla deriva nel linguaggio, lo traversa senza che questo possa darle una rotta. Che cosa accade allora nell'evento? Non solo la frattura tra l'uomo e la propria animalità, ma anche il lampo in cui la vita si fa sentire nel momento in cui può essere perduta. Abbiamo in questo il contrassegno dell'angoscia, che in una delle sue conferenze degli anni Settanta, La terza, Lacan definisce non più in relazione all'oggetto (a), come nel seminario di dieci anni prima, ma in relazione al corpo: l'angoscia, dice, è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo. L'oggetto (a) è in fondo riconducibile ancora a una parvenza, una parvenza d'essere che si fissa nel fantasma e che, venendo al posto del manque à être, può sostenere l'interpretazione. La vita è invece qualcosa di estremo, perché, dice Lacan, "della vita, oltre a quella vaga espressione che consiste nell'enunciare il godere della vita, non sappiamo niente". Appare qui una netta distinzione tra il reale della vita, imprendibile, e l'essere, di cui l'oggetto (a) coglie una parvenza.

Ciò che accade nell'evento è che, per l'uomo, la vita si fa sentire nel momento in cui il linguaggio gli toglie l'animale immediatezza di contatto con essa.

Quel che si ripete e quel che è di troppo

Che cosa si ripete invece nella ripetizione? Quando Lacan riconsidera il concetto freudiano di ripetizione sullo sfondo c'è Kierkegaard, che si interroga sulla possibilità di tornare a godere di un bene passato, di riavere le cose perdute, c'è il tema della restituzione. Sappiamo che nella sua storia personale Kierkegaard è portato a questo filone di riflessione dalla perdita di Regina Olsen ma, al di là dell'aspetto aneddotico, quel che è in gioco nella ripetizione sono la continuità e la necessità dell'essere: quod quid erat esse. E' per ritrovare la continuità di quel che era l'essere che la ripetizione si muove e formula la propria domanda. La ripetizione si articola infatti sul piano del significante e ciò che si ripete è la domanda, che tende a far sorgere quel che era l'essere o, piuttosto, secondo il conio che l'idea prende con Lacan, quel che era lì lì per essere. Per questa via, la ripetizione può ritornare sempre solo al manque à être, la mancanza lasciata dal sottrarsi dell'essere, perché non c'è un prima a cui tornare, una sorta di paradiso perduto in cui rientrare. Nella prospettiva psicoanalitica data da Lacan, non c'è prima l'essere, poi la sua perdita, poi il tentativo di recuperarlo. L'essere è sempre solo ciò che sta per essere, quel che quasi c'era.

Vediamo allora che l'evento è coordinato con il reale imprendibile della vita, con il tempo di frattura in cui questa si fa sentire dal soggetto nella fitta dell'angoscia e nel risvolto conseguente del godimento. La ripetizione è invece coordinata con l'essere, o meglio con la sigla che la sua mancanza lascia nella struttura significante. Il soggetto è così portato a inseguire il proprio desiderio nella parvenza d'oggetto con cui la mancanza si riveste.

E' importante vedere che l'evento pulsionale non inscrive una mancanza ma, piuttosto, fa sorgere un eccesso di pienezza. La frattura che separa l'uomo dalla vita che questa stessa frattura gli fa sentire, lo mette di fronte al fatto che la vita è più di quanto il soggetto possa riconoscere, più anche di quanto possa sopportare: è il contrario di uno svuotamento. La mancanza, invece, e la perdita non sono dalla parte del reale della vita, ma dalla parte dell'essere, perché l'essere è ciò di cui si può parlare, ciò di cui la filosofia ha sempre parlato. E' l'essere che il desiderio insegue, come nel palazzo di Atlante i cavalieri rincorrono le vane parvenze con cui il mago ariostesco li attira nel suo labirinto di stanze vuote. Ma nessuno insegue il reale della vita, perché esso è già lì da sempre, e preme, pulsa, trabocca come godimento in eccesso che gli argini scavati dal significante non riescono a contenere.

L'antitesi tra evento e ripetizione non è soltanto concettuale: il movimento della ripetizione tenderebbe infatti, nel suo ideale e impossibile compimento, a cancellare l'evento, a fare che non sia mai avvenuto. Ripristinare l'essere, per quanto esso non sia mai stato, realizzare il quod quid erat esse significherebbe far rientrare la vita nell'inavvertito, omologarla all'essere statico, farla coincidere con esso, abolirne il carattere di evento e restituirla a una naturalità spoglia di ogni inquietudine, priva del soprassalto di estraneità che afferra l'uomo quando si coglie in relazione a essa. Se Freud, studiando i fenomeni di ripetizione, è stato indotto a parlare di pulsione di morte, è perché nella reiterazione della domanda la ripetizione persegue il silenziamento della vita nella dicibilità dell'essere. Sul fondo di questo c'è però l'agitazione della vita indicibile che traversa da parte a parte l'esistenza, e l'espressione vaga, a cui si riferisce Lacan, di godimento della vita, passa vicino a quello che il fenomeno del panico fa venire allo scoperto: l'inconsistenza dell'Altro.

Il godimento della vita e gli ideali

Le manifestazioni della modernità, nel loro pullulare di molteplici tendenze contrastanti, ci hanno abituati all'idea che non esiste un centro regolatore del mondo, un modello a cui tutto si riconduca, una verità che faccia leva sui valori dell'assoluto. Non siamo più nell'epoca in cui consideriamo che il Nome del Padre tenga un posto di garante, come il Dio cartesiano alla cui buona fede bisognava affidarsi per essere certi di non cadere prigionieri d'illusioni ingannevoli.

In questa mobile varietà delle cose il godimento della vita diventa un imperativo che sostituisce l'investimento degli ideali di un tempo, ma proprio per questo mostra un risvolto d'incoerenza e di disperazione. Da questo punto di vista la ripetizione, anche nel suo carattere sintomatico, ricostituisce una linea di continuità, ma proprio perché deve realizzare una stabilità è costretta a tenere fuori l'evento.

Ci sono diverse espressioni della ripetizione. Uno tipico sono i sogni ricorrenti. Una paziente per esempio sognava sempre di tornare nella casa in cui il padre viveva con la sua amante dopo avere lasciato la famiglia. Si aggirava per le stanze vuote, doveva portare a termine qualcosa, anche se non sapeva cosa. Immancabilmente, senza avere potuto svolgere il compito che si prefiggeva, veniva colta di sorpresa dal rumore della chiave infilata nella toppa dall'esterno, sentiva che il padre e la sua donna stavano rientrando e l'avrebbero trovata lì. Doveva scappare e si svegliava di soprassalto in preda all'angoscia. Solo dopo avere analizzato il suo desiderio inconscio di prendere il posto della donna del padre e di portare a compimento la fantasia incestuosa con il padre il sogno smise di ripresentarsi. Abbiamo qui uno scenario freudiano dei più classici, ma che mostra con chiarezza come la ripetizione sia un dispositivo simbolico, in questo caso il sogno, che ha la funzione di tenere presente un irrealizzato, di far essere quel che è solo aspirazione all'essere. Quel che non smise invece di presentarsi per la paziente fu l'angoscia, che si manifestò, dopo la scomparsa del sogno ripetitivo, in attacchi di panico apparentemente senza ragione. Sciolta dallo scenario fantasmatico l'angoscia si presenta in modo erratico, e non è attraverso l'interpretazione che la si può trattare. In fondo la ripetizione stessa è un modo di trattare il reale dell'angoscia attraverso il simbolico ma, quando nel sogno la pressione del reale si fa troppo forte, lo scenario si dissolve nella brutalità del risveglio.

Anche il sintomo è un fenomeno di ripetizione, con la sua insistenza, con il suo proporsi in forme capaci di accogliere contenuti sempre diversi, come un otre vecchio in cui si versa vino nuovo senza che si spacchi. L'interpretazione rivela il desiderio che in esso si nasconde, smaschera le sue parvenze, e invece di abolirlo lo vede risorgere, incalzare, reiterarsi. Il sintomo si rivela, in questo modo, più che come una disfunzione, come qualcosa di funzionale, di complementare all'inconsistenza dell'Altro. La funzione del sintomo è di tenere presente la mancanza d'essere senza la quale l'Altro va letteralmente a pezzi. Svuotare il sintomo di sofferenza nevrotica attraverso l'analisi non significa portare a compimento la ripetizione perché l'essere si manifesti al proprio colmo, ma toccare un limite in cui la mancanza si rivela necessaria. Tutto questo però non investe l'evento pulsionale. Non c'è modo di arrivare all'evento a partire dalla ripetizione, e questa è la ragione dell'insuccesso di Ferenczi, che pur è stato il primo tra i grandi pionieri a guardare in direzione di un intervento analitico che non si fermasse alle possibilità dell'interpretazione.

Il modello del fenomeno psicosomatico

Per cogliere un contatto del linguaggio con l'evento pulsionale dobbiamo percorrere una strada completamente diversa. Possiamo prendere come modello il fenomeno psicosomatico. Mentre il sintomo si colloca pienamente nel campo del linguaggio e si può spiegare con i meccanismi di sostituzione che Lacan indica nei due grandi assi della metafora e della metonimia, il fenomeno psicosomatico si situa ai limiti del linguaggio: non gli si può attribuire un senso ma certamente è un tratto che si scrive sul corpo, non reagisce all'interpretazione ma non è muto, pur essendo segno non si articola in una catena discorsiva con altri significanti.

Lacan si esprime in pochi brevi passaggi su questo argomento, ma è interessante vedere come lo presenta in un passaggio chiave del seminario XI. Si riferisce agli esperimenti di Pavlov dicendo come, in realtà, essi portino ad associare un significante all'organizzazione organica di un bisogno. Interrompendo il ciclo di un bisogno l'esperimento crea, infatti, artificialmente, il taglio da cui affiora il desiderio. Se l'animale non impara a parlare, sostiene Lacan, se non formula cioè, a partire da queste condizioni, qualcosa come una domanda, è per via di un tempo di ritardo. Possono nascere in lui ogni genere di disturbi ma, non essendo già da ora un essere parlante, non sarà chiamato a mettere in questione il desiderio dello sperimentatore, in altre parole non sarà portato a chiedersi cosa lo sperimentatore voglia da lui, perché gli faccia quel che gli fa, che intenzioni abbia. Lacan tuttavia vede l'interesse dell'esperimento in un aspetto particolare: nel fatto che esso dà le coordinate per cercare di concepire l'effetto psicosomatico.

Seguendo il suggerimento di Lacan vediamo nel fenomeno psicosomatico l'altra faccia rispetto alla ripetizione. Nella ripetizione troviamo il soggetto disincarnato dalla vita che insegue il proprio desiderio sulla traccia della mancanza d'essere. Vediamo il linguaggio che nega la vita per rincorrere l'essere. Nel fenomeno psicosomatico compare l'altra faccia della medaglia. Non c'è in esso soggetto: il linguaggio segna direttamente il corpo, una zona erogena, una sua localizzazione sottratta al'impoverimento vitale, incide nella carne non svuotata di godimento. Perché infatti l'esperimento pavloviano ha una funzione chiave nel gettare una luce sul fenomeno psicosomatico? Perché ci mostra l'animale nell'uomo, perché mette in evidenza il punto in cui il linguaggio interviene nel destrutturare l'istinto, dove il fatto che desiderio dell'Altro non viene messo in questione significa che non entra nel circuito del senso: il segno lasciato sul corpo è un puro marchio dell'evento pulsionale, taglio che nega l'istinto ma che non si proietta verso l'essere mancante. Possiamo considerare, su questo modello, una serie di significanti senza funzione referenziale, non articolati con il desiderio, senza risonanze di senso, che sono tracce dell'evento pulsionale.

Si delinea la lingua indiscreta

Si delinea così un'altra dimensione del linguaggio rispetto a quella studiata da Lacan nella prima fase, strutturalista, del suo insegnamento. Il fenomeno psicosomatico è un esempio particolarmente interessante perché mostra il significante che s'imprime nella carne, ma accanto a esso ci sono altre manifestazioni di linguaggio non separate dall'evento. C'è il delirio psicotico, dove la dimensione del linguaggio-evento invade quella del linguaggio referenziale. C'è quel che Lacan, negli anni Settanta, chiama lalangue fondendo l'articolo e il sostantivo per alludere alla lallazione infantile, per indicare il gioco d'equivoci del linguaggio, per evidenziare l'uso ludico e non semantico della lingua.

Non si tratta di un piano discorsivo in cui l'evento viene narrato, perché per essere narrato deve essere assente, deve essere mancanza. E' un piano dove il linguaggio è connesso con l'evento, e che proprio per questo non entra nel meccanismo della ripetizione. E' una lingua senza grammatica, senza parti articolate, una sorta di lingua indiscreta: che non è suddivisa in elementi e che non nasconde una verità da svelare perché ostenta piuttosto la propria intimità con il pulsare della vita.

Il piano strutturato del linguaggio, connesso alla ripetizione, insegue una parvenza d'essere che gli si sottrae. L'effetto dell'interpretazione — al di là dei codici su cui fa leva, dove l'Edipo è solo uno di quelli possibili — è un affioramento della verità nel momento in cui si disocculta la mancanza.

La lingua indiscreta si dispiega a partire da un irripetibile e non cela nulla, giacché l'evento non è qualcosa su cui si possa porre un velo, non ha risvolti reconditi, né senso, non è quindi trattabile attraverso l'interpretazione. Non è costituita infatti neppure come testo latente da riportare alla luce, perché è fatta di termini assolutamente generici, circolanti alla luce del sole, di cui si tratta piuttosto di determinare il nesso con l'evento pulsionale. Un esempio clinico può dare concretezza al concetto. Si tratta di un caso che resta per me l'illustrazione più limpida sull'argomento.

Ingerirsi

Una donna di ventotto anni chiede un'analisi per affrontare alcune difficoltà della sua vita che si sono tradotte in un disturbo anoressico. Di famiglia benestante, suo padre ha un nome importante che per un periodo ha occupato le prime pagine dei giornali. Racconta di essere sempre stata responsabilizzata in famiglia e di come sin da bambina le venisse affidata la cura delle sorelle appena più giovani di lei. Di questa investitura lei si è sempre fatta carico come di un dovere, pur assumendola con disagio perché la sentiva innaturale e, per età e per inclinazione, stava piuttosto dalla parte delle sorelle. Poiché però nei loro confronti aveva un affetto sincero, le veniva da assumere con loro un atteggiamento materno, che dura tutt'oggi, anche se il più delle volte si trattiene da un eccesso di cure e consigli perché, dice: "Ho paura di ingerirmi nella loro vita privata". Nulla farebbe fermare su questa frase se non fosse lo sfondo costante del suo discorso, ripreso in quella seduta, e concernente le preoccupazioni per il proprio corpo, una volta florido e pieno di salute, talmente florido da volerlo a un certo punto consapevolmente danneggiare. La spiegazione che dà di questa volontà di farsi male è che, in tal modo, riusciva a far dispetto a quanti si preoccupavano per la sua decadenza fisica. Rifiutava di mangiare e godeva di veder nascere l'apprensione nei famigliari. Nei primi tempi in cui manifestava questi atteggiamenti le sembrava di avere perfettamente il controllo della situazione, pensava di poter tornare indietro in qualsiasi momento. Solo più tardi, quando si accorse che il processo era diventato inarrestabile e che si era reso indipendente dalla sua volontà, fu invasa dall'angoscia. Prima si prendeva gioco dei medici, gettava le loro medicine e rendeva impotenti le loro cure. Ora non faceva che cercare le cure dei medici e disperarsi della loro impotenza.

Salta dunque agli occhi che il significante "ingerirsi" e anche il comportamento dell'intromissione hanno uno sfondo nella pulsione orale: ingerenza e ingestione si uniscono in lei per dar luogo a qualcosa di eccessivo e di insopportabile.

Da un lato potrebbe sembrare che il suo comportamento alimentare servisse per attirare l'attenzione dei famigliari, e che insieme al fatto di destare la loro inquietudine volesse attirare il loro affetto, mettersi sotto il loro sguardo. In realtà il modo in cui si esprime porta in un'altra direzione: si tratta piuttosto di sottrarsi, quasi di annullarsi per ripararsi dall'intrusione di un godimento dell'Altro rispetto al quale si sente esposta in modo esorbitante. Alcuni episodi mettono in particolare evidenza questo aspetto. Suo padre ha un'amante, e non fa nulla per nasconderglielo. Anzi, spesso fa in modo di trovarsi a telefonare in sua presenza in momenti in cui la conversazione ostentatamente bisbigliata prende una piega inequivoca. E' una situazione che lei non sopporta anche se non riesce a sottrarvisi, e si domanda, senza sapersi rispondere, perché il padre la voglia a testimone di quell'intimità. Per il padre è stata una vera e propria sbandata, tradottasi in uno spettacolare incidente d'auto da cui la famiglia uscì miracolosamente illesa. Da quel momento nascono drammatiche discussioni in famiglia dove lei è messa in mezzo. Non aveva nessuna intenzione di ingerirsi negli affari dei suoi, ma vi era in qualche modo costretta: "Ero come una bilancia — dice — dovevo mantenere l'equilibrio". Avrebbe voluto sparire ma era costretta a stare lì, con le braccia tese tra l'una e l'altra parte, come i bracci di una bilancia. L'immagine, così espressiva, che la identifica con la bilancia, nasce da un lapsus tra "bracci" e "braccia".

Questi episodi valgono a mettere in risalto un senso d'intrusione che però non nasce da essi e che si ripresenta incessantemente nella sua storia. Quando era al liceo per esempio, che ha frequentato in anni in cui gli effetti della rivoluzione sessuale erano ancora attuali, sentiva con angoscia la pressione delle richieste dei compagni a cui non poteva sottrarsi per ragioni ideologiche. Era un'ideologia a cui aderiva ma che proprio per questo la faceva sentire preda di brame rispetto alle quali non aveva riparo.

L'ingerenza, la pressione del godimento dell'Altro è una costante della sua vita e la sola difesa che riesce a immaginare è annullarsi. Un giorno, mentre stiamo analizzando i suoi pensieri sulla maternità e sul modo in cui la senta per lei illegittima le butto lì che forse questo ha a che vedere con il fatto che sarebbe costretta a ingerirsi in… Non appena ho pronunciato questa parola è colta da un momento di terribile paura, di cui spiega subito la ragione. Invece di pensare all'ingerenza ha pensato all'ingestione: ha pensato a lei stessa che si divora per togliersi di mezzo e le si è presentata l'immagine del cartone animato che accompagnava la canzone Nowhere man, in cui un pupazzo si divora fino a sparire.

Questo, direi, getta una luce anche sul suo comportamento alimentare: non si tratta di attirare l'attenzione dei famigliari, ma di distruggere il loro godimento, il piacere che hanno di vederla florida e in salute. Negare a se stessa è negare all'Altro, come quando, da piccola, suo nonno la colmava di cioccolatini e di leccornie e insisteva perché lei ne prendesse, ma lei non ne voleva: sentiva che gliele offriva perché voleva mangiarne lui. C'è, nella sua vita, un eccesso realtivo al godimento orale che diventa invasione, divorazione, rispetto al quale la sola divesa è annullarsi. Il significante ingerirsi, nel contesto in cui è capitato nel discorso, si fa latore di questo eccesso che dà un'impronta peculiare alle sue relazioni famigliari e alla sua vita in generale. Si carica però anche del sentimento di violazione di un'intimità, che appare esplicitamente nella volontà del padre di renderla testimone della sua tresca.

Mettiamo ora a confronto i due elementi significanti che compaiono negli esempi clinici che ho portato: la macchina per fare l'amore e ingerirsi. Da un certo punto di vista sono simili: sono entrambi elementi in cui si condensa l'equivocità del discorso permettendo una presa sull'inconscio. Se consideriamo però le cose con la dovuta attenzione, la differenza è molto più importante della somiglianza.

La macchina per fare l'amore, infatti, è per un verso l'auto del testo manifesto e per altro verso esprime il significato della sequenza inconscia: la volontà del paziente di imparare l'arte della seduzione come fosse una tecnica, come potesse funzionare automaticamente, come potesse diventare lui la macchina per fare l'amore. L'interpretazione quindi rimanda da questa want to be, dalla volontà di essere, da una mancanza correlata con un ideale colmamento a una mancanza incolmabile e necessaria, e a questo scopo fa leva sul significato fallico.

Ingerirsi si apre da un lato sul piano delle relazioni intrusive che caratterizzano la famiglia, dall'altro sul registro della pulsione orale. Non contrassegna però una mancanza che aspira a riempirsi d'essere, ma piuttosto il contrario: una pienezza invadente, una ridondanza insostenibile, un'esuberanza soverchiante. Non c'è significato da chiarire, enigma da risolvere, non c'è interpretazione che possa dare un senso all'insopportabile ingerenza di godimento che traversa tutta la vita della paziente. La macchina per fare l'amore delinea il contorno di una mancanza, ingerirsi è portatore di pletora. Questo implica una differenza essenziale, perché la prima sequenza, proprio in quanto incentrata sulla mancanza, tra con sé la coazione a ripetere. Nella seconda non c'è traccia di ripetizione e non può esserci, perché c'è piuttosto una fissità, una costanza, un nesso senza soluzione di continuità con l'evento. In ingerirsi l'evento dell'intrusione è continuamente tenuto presente, non è mai acqua passata, il significante lo perpetua, non lo ripete né lo denota né lo commemora, perché non se ne è mai svuotato e, diciamo piuttosto, ne è parte esso stesso.

Le nevrosi freudiane classiche, l'isteria e la nevrosi ossessiva hanno consentito di mettere in evidenza la dimensione del linguaggio che Lacan, riprendendo il detto paolino, ha definito come assassinio della cosa, del linguaggio come cancellazione di godimento, come inscrizione della legge paterna e della castrazione, dove tutto ruota intorno allo gnomone fallico.

Le patologie contemporanee fanno affiorare la dimensione del linguaggio connessa con l'evento dove non c'è soppressione del godimento, il quale, proprio per questo, può diventare invasivo e intollerabile, presentandosi in forma d'angoscia o di panico.

Dopo le grandi drammatizzazioni allestite con la regia delle isteriche, a cui Hitchcok ha aggiunto il proprio tocco di maestro con Marnie, un nuovo orizzonte si apre per la psicoanalisi, chiamata come sempre, come mestiere impossibile, a sciogliere i nodi insolubili della vita, o a renderli sopportabili. Non c'è, su questo piano, la narrazione o la grande teatralizzazione che prendono il posto della mancanza. C'è un eccesso di fronte al quale lo psicoanalista può rispondere indossando i panni del Mago di Oz per dire: "Fai con quel che manca e utilizza quel che c'è: i sandali d'argento che porti ai piedi non ti servono solo per strisciare nella polvere, e possono farti volare, quando conosci il segreto".